Info Progetto
Architetto: Bureau – Daniel Zamarbide
Progetto: Maria
Luogo: Lisbona, Portogallo
Area: 88 m²
Anno: 2020
Categoria: Appartamento, Ristrutturazione
Immagini © Francisco Nogueira
MARIA è un semplice appartamento, un posto per un occupante che potenzialmente può sempre dormire sul divano, vivere con un cane, cucinare sul balcone, mangiare sul pavimento, leggere in bagno, stare sul bancone della cucina, e decidere che non ha bisogno di catalogare i suoi gesti quotidiani per creare un avatar di sé stessa. MARIA è uno spazio fisico sconnesso in attesa di essere abitato nel modo più ricco possibile, senza pregiudizi e modi precostituiti di abitare. Come spazio, MARIA ha un’identità sessuale indefinita.
La classificazione architettonica che si riferisce a come le parti di un appartamento sono disposte è definita tipologia abitativa: definisce e cataloga caratteristiche comuni o tipi. Si tratta di un concetto abbastanza noto in architettura, e in particolare negli spazi dedicati all’abitazione: appartamenti, case. Le tipologie si riflettono nei modelli di pianta, con iterazioni dei modelli di distribuzione delle stanze.
Inevitabilmente, per applicare un certo tipo di progetto a una data situazione o contesto, è necessario decidere (in rari casi) o ereditare (nella maggior parte dei casi) a quale tipo di progetto abitativo corrisponda. A questo punto l’esercizio diventa piuttosto spinoso. Le norme e i regolamenti dettano il modo in cui ci muoviamo nelle tipologie abitative e vengono costruiti usando alcuni schemi fissi inerenti a ciò che una famiglia potrebbe essere e come dovrebbe comportarsi nel suo spazio intimo.
Le abitudini culturali introducono convenzioni riguardo a come una famiglia dovrebbe essere e a come occuperà gli spazi della casa. Così, il catalogo delle possibilità è drasticamente ridotto dal momento che, non sorprende, la famiglia tradizionale comprende un marito eterosessuale, una moglie e uno o due bambini, con spazi di intimità che spaziano dal più “pubblico” come la sala da pranzo al più privato come il bagno in camera dei genitori. La maggior parte degli appartamenti e delle case intorno a noi appartiene a questo modello difficile da mettere in discussione.
Nel 2018 Apple ha presentato i memoji, un po’ in ritardo rispetto ai suoi concorrenti asiatici, ma con un look più accattivante. I memoji creano l’avatar di noi stessi tracciando i nostri movimenti facciali. L’idea è che questo avatar imparerà progressivamente a creare un catalogo di gesti emotivi che definirebbe il nostro sé digitale.
La perversione deriva, come Shoshana Zuboff ha esposto nella sua ampia ricerca sul Capitalismo di Sorveglianza, da un movimento continuamente invertito: fornendo al nostro avatar una serie di gesti facciali emozionali classificabili, in qualche modo sottomettiamo questi gesti ai limiti tecnologici dell’app.
Questo scambio continuo tra il nostro viso e lo schermo del telefono offusca il nostro potere di comando fino al punto in cui probabilmente non sapremo mai davvero se le capacità tecnologiche dell’avatar hanno condizionato i nostri sorrisi o viceversa.
Credo che lo stesso valga per il condizionamento tipologico dei nostri spazi. Non sapremo mai chi detta le regole. Ma sappiamo, come architetti e designer, che queste regole non considerano la diversità. Siamo costretti a lavorare come se ogni spazio fosse rivolto ad una singola categoria di famiglie monolitiche. Chi progetta così i nostri spazi abitativi? Quali sono le regole non dette, imposte alle tipologie abitative? C’è uno spazio, nelle nostre case, per le persone conviventi? Un appartamento per una singola persona risponde alla stessa organizzazione dello spazio di uno per una famiglia di quattro persone? I bisogni di una famiglia contemporanea sono gli stessi del passato?
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