Amelia Tavella Architectes | Convent Saint-François

by Jean Jacques Colangelo
Info Progetto

Architetto: Amelia Tavella Architectes
Progetto: Convent Saint-François
Luogo: Santa-Lucia di Tallano, Corsica, Francia
Area: 400 m²
Anno: 2021
Categoria: Convento, Monastero
Immagini © Thibaut Dini

Amelia Tavella, che ha appena ricevuto il titolo di Cavaliere nell’ Onorificenza Nazionale al Merito, ha completato la riabilitazione e l’ampliamento del Convento Saint-François, a Santa-Lucia di Tallano, in Corsica, la sua isola nativa.

L’edificio, costruito nel 1480, indicato come monumento storico, parzialmente in rovina, era abbandonato. Il giovane architetto doveva ricostruirlo senza distaccarsi dalle testimonianze del passato.

“Credo nelle forze più alte e invisibili. Il Convento Saint-François, di Santa Lucia di Tallano, costruito nel 1480, fa parte di questa credenza. Ubicato su un alto promontorio, era un castello difensivo prima di essere un luogo di preghiera, di ritiro, scelto dai monaci consapevoli della bellezza assoluta del sito. La fede si unisce al sublime”.

Con alle spalle il cimitero, il convento si affaccia sul villaggio. Ha una facciata e un retro. L’uliveto è come un collare ai suoi piedi, un felice giardino di cibo celeste. Di fronte, lo spettacolo delle montagne corse, una vertiginosa giostra di passi e creste che sembrano muoversi in direzione delle nuvole e cambiare vestito con le stagioni. Qui pulsa il cuore dell’Alta Roca. La bellezza è religiosa, soprannaturale.

La natura è cresciuta all’interno dell’edificio, è scivolata tra le pietre e poi si è trasformata in armatura vegetale che protegge dall’erosione e dal collasso. Un albero di fico è inglobato nella facciata. Il legno, le radici che sono diventate strutturali hanno sostituito la calce che non ha superato la prova del tempo. Componente essenziale del monumento storico, Amelia Tavella ha onorato questa natura che ha a lungo protetto l’edificio prima della sua resurrezione.

“Ho scelto di conservare le rovine e sostituire la parte distrutta, la parte fantasma, in opere di rame che diventeranno la Casa del Territorio. Ho camminato sulle orme del passato, collegando la bellezza alla fede, la fede all’arte, muovendo le menti dal passato a una forma di modernità che mai altera o distrugge. Le rovine sono segni, vestigia, impronte, raccontano anche i fondamenti e una verità, erano fari, punti cardinali, distorcono i nostri assi, le nostre scelte, i nostri volumi. »

“Costruire sulle rovine significa far incontrare passato e modernità, che si abbracciano facendo la promessa di non tradirsi mai. Uno diventa l’altro e nessuno viene cancellato. È un intreccio di un tempo più antico in un tempo nuovo che non disfa, che non distrugge, ma che collega, attacca, afferra, due parti sconosciute e non estranee, una delle quali diventa estensione dell’altra in una sorta di trasfigurazione.
Ho sempre costruito in questo modo sulla mia isola corsa, come un archeologo che riunisce ciò che era, ciò che è e ciò che accadrà; non rimuovo, appendo, lego, affisso, scivolo, appoggiandomi sul terreno iniziale, sull’opera originale: il rame rivela la pietra, il monumento, e sacralizza lo stato in rovina poetico. La rovina è come un’immagine a raggi X di una struttura levigata dal tempo. Improvvisamente si ritrova ingigantita, perché tenuta da una cornice di rame reversibile, essa stessa destinata a trasformarsi, diventare seconda pelle e avere una storia. Mi piaceva l’idea di un possibile ritorno alla rovina, che il rame potesse essere annullato – questa possibilità è una cortesia, un rispetto, verso il passato, il patrimonio corso. Ho costruito la Maison du Territoire allineandomi alla struttura originale. Imitando, ho riprodotto la silhouette dell’edificio preesistente.”

“Come l’immagine della montagna, ho ripercorso il progetto, preoccupata di una simmetria nella Bellezza, nulla dovrebbe disturbare l’occhio. Sono ossessionata dall’ovvio. Ogni opera è un’opera d’amore. Amore del luogo, dell’edificio, della sua mutazione, una specie che si trasforma da ciò che è stato. Il rame ha permesso un gesto di morbidezza, è femminile come la pietra. A differenza del granito, però, si avvicina alla sua grandezza, per la preziosità e la sua propensione a catturare la luce, a rifletterla, rimandandola al cielo come le preghiere dei monaci e dei fedeli che si rivolgono all’Altissimo. Le sue mashrabiya dirigono la luce verso l’interno, catturata e diffusa come se stesse passando attraverso la finestra vetrata di una chiesa. Un materiale nobile e abbagliante, il rame trasforma il luogo in un’esperienza. Il sole vi cade e se ne va”.

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